Il dialetto napoletano ha origini molto arcaiche e oggi rappresenta una lingua a sé stante. È parlato correntemente non soltanto in Campania e nelle regioni meridionali limitrofe, ma anche all’estero, grazie alle migliaia di emigranti che tra fine Ottocento e inizi Novecento hanno lasciato Napoli per l’America e il Sud America.

Dal punto di vista prettamente lessicale, il dialetto napoletano è un idioma sovraregionale fondato sull’antica forma vernacolare napoletana impiegata nel Regno di Napoli e nel tempo ha sostituito parzialmente il latino per la redazione di documenti ufficiali della corte di Napoli con decreto di Alfonso I nel 1492.

Il volgare napoletano per secoli ha fatto da ponte di unione tra il pensiero dell’antichità classica e quello moderno e barocco e tra la cultura europea meridionale e quella dell’Europa settentrionale. Non a caso in napoletano sono state raccolte per la prima volta le fiabe più note della cultura europea.

Attualmente il dialetto napoletano è secondo solamente alla lingua italiana per diffusione sul nostro territorio. Sul tema si è poi acceso un forte dibattito perché in principio si pensava che l’UNESCO avesse riconosciuto il dialetto napoletano lingua e Patrimonio dell’Umanità. In realtà, si è poi scoperto che l’UNESCO lo ha riconosciuto semplicemente come Lingua in Pericolo di Estinzione.

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Storia e origini del dialetto napoletano

Esattamente come l’italiano, il napoletano è un idioma derivato dal latino. Si pensa che un possibile substrato sia la lingua osca che veniva parlata anticamente dalle popolazioni autoctone dell’Italia centro-meridionale, nonostante Neapolis fosse nota per le sue radici greche. In ogni caso, tracce inequivocabili su questo argomento non sono ad oggi evidenti.

Inoltre, come qualunque altra forma linguistica, il dialetto napoletano nel corso della sua storia ha comunque subito prestiti e influenze da diversi popoli che hanno abitato la Campania dal Medioevo in avanti. Tra questi ci sono i mercanti bizantini, i duchi longobardi di Benevento e i sovrani normanni, francesi e spagnoli. Per quanto riguarda lo spagnolo e la presunta somiglianza tra i due idiomi, questa sarebbe dovuta non ai secoli di dominazione, ma soprattutto al fatto che entrambi sono lingue neolatine e molti elementi in comune sono da attribuire al latino volgare.

Durante il regno degli Aragona si propose che il napoletano continuasse ad essere la lingua dell’amministrazione locale, senza imporre spagnolo o catalano, ma il tentativo fallì con l’inizio del viceregno spagnolo ad inizio del XVI secolo, quando si preferì l’italiano. A metà Ottocento, il Regno delle Due Sicilie utilizzava come lingua letteraria e amministrativa soltanto l’italiano e dunque il dialetto napoletano non ha mai avuto lo status di lingua ufficiale, se non per un breve arco di tempo (1442-1501).

Letteratura e musica in dialetto napoletano

Al pari di altre lingue del mondo, il dialetto napoletano ha una lunghissima tradizione letteraria. Infatti, esistono testimonianze scritte già nel 960 nel documento Placito di Capua e nel XIV secolo in una volgarizzazione dal latino de La Storia della distruzione di Troia di Guido delle Colonne. Invece la prima opera in prova scritta in dialetto napoletano è i Diurnali, una cronaca degli eventi più importanti del Regno di Sicilia nell’XI secolo, forse scritta da Matteo Spinelli di Giovinazzo.

Il più importante poeta in dialetto napoletano di epoca moderna è stato Giulio Cesare Cortese che, come Giambattista Basile ha gettato le basi per la dignità letteraria del napoletano. Di Cortese si può ricordare soprattutto l’opera Vaiasseide, un poemetto eroicomico diviso in 5 canti, dove il metro linguistico e la tematica sono abbassati al livello delle protagoniste che son appunto delle vaiasse, cioè delle popolane napoletane.

La prosa in napoletano diventa quindi celebre soprattutto per merito del già citato Basile, autore vissuto a metà del XVII secolo, la cui opera più nota è Lo Cunto de li Cunti, ovvero lo trattenimiento de le piccerille, poi tradotta da Benedetto Croce in italiano. Negli ultimi 3 secoli è dunque fiorita una grandiosa letteratura in dialetto napoletano, in ambiti spesso molto differenti e con punte di altissima qualità. È il caso dei lavori di Raffaele Viviani, Ferdinando Russo, Eduardo Scarpetta, Antonio de Curtis, Eduardo De Filippo e Salvatore di Giacomo.

Il dialetto napoletano però ha trovato spazio anche nelle canzoni napoletane, derivanti da una lunga tradizione musicale e diffuse ormai in tutto il mondo. Basti pensare al successo di ‘O sole mio, inno dell’Italia a livello globale tradotto in molte lingue. Inoltre, tra il XVII e il XVIII secolo, ovvero nel momento di massimo splendore della scuola musicale napoletana, questo idioma è stato impiegato per comporre libretti di opere liriche, come Lo frate ‘nnammurato di Pergolesi.

Oltre ai grandi classici però, il napoletano oggi trova largo uso anche nella musica pop, hip hop, rap e trap. Come non citare Pino Daniele, Napoli Centrale e Nuova Compagnia di Canto Popolare, 99 Posse, Almamegretta, Tullio de Piscopo, Co’Sang e molti altri, in cui confluiscono italiano, napoletano, inglese, spagnolo e altre lingue. Dagli anni Settanta in poi si è affacciata una nuova generazione neomelodica iniziata con Gigi d’Alessio, Gigi Finizio, Sal Da Vinci e Nino D’Angelo, mentre negli ultimi 10 anni si è fatto largo il rap napoletano con Clementino, Rocco Hunt, Geolier, Luché, Enzo Dong e Lele Blade.